Luigi Celano, medico

Intervento di Antonio Roma, studioso e ricercatore storico, alla festa dell’emigrante del 6 agosto 2005

Partono ‘e bastimente

Pe’ terre assaie luntane….

Parteno e a buordo so’ napulitane.

Cu ll’uocchi dinte all’uocchi,

cu e’ mmane dinte e mmane,

lasciano ca’ o’ passato pe nu’ murì dimane.

 

Già, lasciano qua il passato per non morire domani.

Ed in effetti era così, in quei lontani  anni che a partire  dal 1876 al 1940 hanno portato fuori dall’Italia oltre 18.000.000 di persone hanno, gente che ha dovuto lasciare la propria patria per “cercare fortuna” il altri Paesi.

Si lasciavano gli affetti, i paesi, la patria, la propria storia, il proprio passato, per non essere costretti a morire di fame in Italia.

Quanto vera e straziante la testimonianza di un contadino riportata dal Coletti nell’esauriente suo testo sull’emigrazione italiana  edito nel 1911, “Se non fosse avvenuta l’emigrazione, si sarebbe fatto a coltellate per vivere”.

Eppure poco più di cent’anni prima il nostro Antonio Genovesi aveva descritto queste zone tra le più belle, le più amene, le più fertili contrade della presente Italia, e lo stesso F. SPIRITO aveva più volte tuonato nelle aule parlamentari invocando un risveglio delle province meridionali  attraverso lo sviluppo dell’agricoltura aiutato dalla realizzazione di una vasta rete viaria che favorisse la commercializzazione dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento.

La recente unificazione  e soprattutto la crisi agraria, aggravata dalla guerra doganale con la Francia, aveva costretto migliaia e migliaia di italiani ad intraprendere quel lungo viaggio verso l’ignoto.

Se ciò fu comune a tanti italiani, perché doveva essere risparmiato a tanti nostri concittadini.

E fu così che anche da San Mango partirono numerose famiglie, come la famiglia MANZO, la famiglia MAGLIACANE, l’ARDOVINO, la famiglia GENOVESE, FORTUNATO, COSTANTINO e tante altre, insieme a tanti altri giovani appartenenti a famiglie diverse.

Alcune ritornarono, altre preferirono restare in America, e chi più chi meno ha lasciato un sottile filo che ancora lo lega al natio paesello.

Oggi qui, non potendoli ricordare tutti, abbiamo pensato di rievocare la memoria di uno tra i tanti che subì la stessa sorte, che affrontò gli stessi sacrifici, e che pur vincendo, subì l’affronto della morte quando ancora tutta la vita gli sorrideva davanti.

Luigi Celano, il dottor Luigi Celano, nacque qui, in questo Comunello, per usar i versi del nostro poeta Cavallo, –a cui diè nome il santo medico Magno, posto a piè del monte, ond’Jacopo la vena dalla fonte materna attinse del suo primo canto, il 10 ottobre 1886 da Nicola, calzolaio, e Trofimena Aceto, ricamatrice.

Con il costante aiuto dello zio Don Francesco Manzo conseguì a 20 anni la licenza liceale nel Regio Liceo Tasso di Salerno, superano il passaggio dalla II alla III class senza esami e meritandosi in premio una medaglia d’argento.

Si iscrisse poi nell’ Università di Napoli alla facoltà di Giurisprudenza.

Ma egli sentiva che non quella era la sua strada, non quella la via in cui avrebbe, con volontà, raccolti i suoi allori!.

Pur tuttavia studiava con amore e con lena, anche se ben presto fu costretto ad abbandonare gli studi, e con essi, la sua cara patria ed i natio paesello, perché la famiglia, già emigrata in America lo chiamava  sé.

Partì con le lacrime negli occhi, fissi al cielo azzurro d’Italia; sentì che dall’anima sua si staccava qualche cosa di vitalità, di sé stesso.

Eccolo in America, ed eccolo subito iscritto al COLLEGE OF MEDICINE, eccolo finalmente sciogliere il voto del suo cuore e dar vita e luce alla sua idea. Questo era il suo cammino, questo, in cui sentiva di dover vincere o di soccombere. E vinse perché volle! Non conosceva parola inglese e tuttavia non si sgomentò. “Solo chi muore può sostar per via”. Ed egli proseguì, gli sforzi furono raddoppiati e lo snervante studio non lo abbattè.

Tutta la sua carriera di bravo ed ottimo scolaro  fu una serie ininterrotta di trionfi; un’ininterrotta ascensione verso il buono, il bello e il vero; una celeste vittoriosa corsa alla meta prefissa.

La volontà lo sorresse e gli impose una seconda vita. Studiò giorno e notte mentre fuori così invitante brillava il sole o mentre nella tarda notte così dolce sarebbe stato abbandonarsi al riposo confortante del sonno

E perciò la vittoria fu sua. Presto diventò uno tra i primi: nel 2° anno gli fu conferita una medaglia di argento per studii speciali in anatomia.

Fu frutto d’intelligenza? Si, ma anche sforzo di volontà enorme, ma anche costanza di studio ammirabile, ma anche sublime virtù di sacrificio e di rinuncia.

Un ardore inestinguibile lo spronava a nuove lotte, a nuovi studi, come a nuovi successi. La faticosa ascesa era cominciata. Bisognava conquistare la vetta e quindi ancora soffrire, ancora combattere!

Ed agli ostacoli si aggiungevano gli ostacoli.

I suoi compagni di scuola, con i quali egli con gran gioia avrebbe fraternizzato, lo deridevano invece. Lo isolavano e non capivano che lui, se avessero voluto, sarebbe stato pronto per loro ad ogni sacrificio. E non sentivano che gli arrecavano dispiacere e lacrime, che gli laceravano il suo animo tanto dolorante.

Egli aveva la colpa di essere uno straniero, un italiano  per di più volenteroso ed intelligente. La sua bontà non lo fece mai reagire contro questa ingiustizia: sopportava, compativa e nella sua cameretta, dove si rifugiava a dar sfogo al dolore, lasciò cadere sui libri aperti tutte le sue lacrime: Forse fu un bene! Nel dolore forte ritemprò, come il ferro ne fuoco, il suo animo, tutto sé stesso, e volle e vinse, e nella vittoria egli sentì che con lui vinceva tutto un popolo: trionfava la patria.

Dopo un anno dall’iscrizione, il 27 Giugno 1913, conseguì al COLLEGIO DI MEDICINA e CHIRURGIA con somma lode la laurea di medico-chirurgo. Fu nominato allora medico chirurgo dell’HARLEM HOSPITAL e nel biennio di pratica in questo ospedale fu di grande aiuto e portò notevole contributo di sacrifici e di operosità professionale.

La vetta era raggiunta: bisognava consolidarla!

Ed egli si accinse a questa nuova opera con passione davvero ammirabile ed indomita. Nel 1921 gli fu conferita la carica di patologo al BELLEVUE HOSPITAL e pochi mesi dopo venne nominato docente di patologia alla NEW YORK UNIVERSITY, a quella stessa Università che lo aveva visto entrare ignaro di scienza, dove aveva provato i più amari disinganni.

Oh! Non era più lo studente timido che vi entrava: no, era l’uomo sicuro di sé, l’uomo agguerrito contro ogni partigianeria, l’uomo che aveva ereditate tutte le virtù d’un popolo orgoglioso della propria storia passata. Ed era sereno, cordiale con tutti, sempre prono ad ogni opera buona e ad oni sacrificio. Nel breve spazio di pochi anni si affermò ancora di più: fu infatti chirurgo valoroso dell’OSPEDALE ITALIANO, membro autorevole DELL’AMERICAN MEDICAL ASSOCIATION, dell’ACCADEMY OF MEDICINA e della NEW YORK MEDICAL ASSOCIATION. Fu il più caldo promotore di ogni opera di beneficenza e di ogni iniziativa che mirasse a lenire miserie o ad attenuare dolori.

Della vita fece un apostolato di bene, onorando sé stesso, la terra d’origine, la Nazione.

E visse per due grandi ed inseparabili amori, quello della Patria e quello degli studii. Amò soprattutto l’Italia, l’amò come sanno amarla gli uomini liberi e forti, sospirandone sempre la sua grandezza e la sua potenza. Seguiva con passione lo svolgersi di ogni azione politica italiana, pronosticando sempre il felice esito di ognuna.

Nel periodo bellico fu interventista sincero,. Pianse per Caporetto, esultò non poco per Vittorio Veneto. E quando la patria vittoriosa ebbe bisogno di aiuti economici, egli abbandonò a favore dello Stato un forte capitale investito per il Prestito Nazionale.

E la sua fede nei destini della patria non fu scossa mai per qualunque evento e per qualunque ragione.

Ma mentre progrediva nel suo apostolato di bene e di ogni feconda attività, la fredda morte lo ghermì l’11 Ottobre del 1923. Egli cade da valoroso, come era vissuto; cadde vittima della sua scienza alla quale aveva offerto tutta la sua vita di privazioni e di sofferenze.

 

Così lui, ch’avea ben cento e cento

volte nel suo mortal cimento vinto,

ohimè fu colto alfin da Colei per tradimento.

 

Nel settembre del 1923, mentre operava nell’HARLEM HOSPITAL un malato affetto da meningite, si produsse col bisturi, alla mano sinistra, una piccola scalfittura che gli fu fatale. Infatti dopo poche ore l’infezione degenerò ben presto in un acutissimo caso di meningite. A nulla valsero le cure più amorose della cara mamma sua e di tutti i familiari.

La sua ora era suonata! Tacque la scienza e la sua fibra robusta non resistette a combattere a debellare il male. Breve fu la lotta, inesorabile il destino.

E chiudeva gli occhi non ancora stanchi dallo studio a solo 36 anni, quando la vita era per lui una vittoria e una ricompensa.

Il suo nome è segnato a carattere d’oro nell’album della COLONIA ITALIANA, perché la gioventù emigrata senta col fatto la grandezza della nostra razza. La SOCIETA’ MEDICA ITALIANA, come l’ASSOCAZIONE MEDICA AMERCANA inviarono alla famiglia un album scritto a lettere d’oro dov’è consacrato “ LA DOLOROSA PERDITA DI UNO CHE FU TRA I PIU’ VALOROSI PROFESSIONISTI”.

La sua salma è interrata nel più bel cimitero di New York, dove, per volere della famiglia e di quanti lo ebbero caro, fu eretto un monumento granitico che ne perpetui il ricordo.

Di questo giovane di spirito alacre, di ingegno operoso, di cuore sinceramente buono; di questo giovane che sapeva tutte le seduzioni per avvincere i cuori e le menti non si rimpiangerà mai abbastanza la dolorosa dipartita, perché chi sa innalzarsi nel bene, chi sa combattere da forte, le dure battaglie della vita, chi sa nel dolore, col cuore sanguinante, imporsi la volontà grande di vincere, ed è nella sua fede costante e tenace, non può non essere rimpianto e venerato.

E è quello che oggi abbiamo inteso fare, ricordando con lui tutti gli emigranti italiani che, tra innumeri stenti, con buona o cattiva sorte, sono stati costretti a lasciare la famiglia, la patria, la propria storia, portandosi ovunque e sempre nel cuore quel po’ o tanto di operosa italianità.

 

Passiata pe’ Santomango

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